attacco notturno di Israele di venerdì 13 giugno contro i siti nucleari iraniani, lanciato con l’operazione ‘Rising Lion’ e seguito poche ore dopo da una pioggia di oltre cento missili iraniani su Tel Aviv e Gerusalemme, ha scatenato una tempesta finanziaria globale. Le Borse asiatiche sono state le prime a reagire, con Tokyo in calo dello 0,89%, Shanghai a -0,75% e Hong Kong a -0,59 per cento. Ma è l’Europa a pagare il conto più salato, con Milano che ha chiuso nella giornata di venerdì a -1,28%, Madrid a -1,23% e Parigi e Francoforte poco sopra il -1 per cento. A fine giornata, il saldo europeo è drammatico: sono stati bruciati 185 miliardi di euro di capitalizzazione. A Wall Street l’indice Dow Jones ha perso oltre l’1%, il Nasdaq lo 0,53 per cento. Secondo Moneyfarm la reazione è stata contenuta rispetto ad altri eventi geopolitici recenti, ma riflette un aumento della cautela, con spostamenti verso titoli di Stato e materie prime.
Roma, 14 giugno 2025 – L’
Petrolio e gas alle stelle: i rischi dello Stretto di Hormuz
La preoccupazione principale degli investitori si concentra sullo Stretto di Hormuz, il punto più strategico del commercio globale di idrocarburi: da qui transita il 30% del greggio mondiale e un quarto del gas naturale liquefatto. Ogni giorno oltre 20 milioni di barili attraversano quel budello tra Oman e Iran. La minaccia iraniana di bloccarlo, come risposta alle incursioni israeliane, ha scatenato un balzo dei prezzi: +6,89% il Brent, +6,8% il Wti, con le quotazioni salite in un solo giorno ai livelli di marzo 2024. Il gas europeo è volato a 37,89 euro al MWh (+4,75%). JP Morgan stima che, in caso di blocco effettivo, il petrolio potrebbe arrivare fino a 120 dollari al barile. Le conseguenze non riguardano solo l’approvvigionamento energetico diretto: la Cina, grande acquirente di petrolio iraniano (1,5 milioni di barili al giorno), dovrebbe rivolgersi altrove, con rincari a cascata su produzione, export e inflazione globale.
Trasporti e logistica sotto pressione
Secondo il centro studi di Unimpresa l’aumento dei carburanti legato alla crisi mediorientale potrebbe costare fino a 300.000 euro l’anno a una flotta media di 50 camion. L’incremento di 10-15 centesimi al litro per diesel e benzina colpisce un settore già messo alla prova da margini sottili e tariffe stagnanti. Ma non è solo su gomma che si fanno sentire le ricadute: anche la logistica marittima e aerea sta affrontando rincari tra il 5% e il 10% nei costi di spedizione. Queste pressioni si sommano a una catena di approvvigionamento globale ancora fragile, con conseguenze sui tempi di consegna, i prezzi dei beni e la competitività internazionale. In particolare, secondo l’analisi di Moneyfarm, le aziende manifatturiere, chimiche e di trasporto rischiano una compressione strutturale dei margini se l’aumento dell’energia dovesse protrarsi nei mesi.
Italia i Paesi più esposti: pesano i rincari energetici
L’Italia è uno dei paesi più vulnerabili a una crisi energetica, con oltre il 90% del gas e il 95% del petrolio importati. L’aumento dei prezzi del 13 giugno si è già riflesso sui costi dell’elettricità, che nel nostro Paese dipende per il 40% dal gas. Se l’attuale trend dovesse proseguire, il costo dell’elettricità potrebbe salire fino a 180 euro per megawattora. Le pmi, cuore del tessuto produttivo italiano, rischiano rincari dei costi energetici tra il 3% e il 7%, mentre i settori energivori, come ceramica, acciaio e vetro, potrebbero vedere aumenti operativi fino al 20%, erodendo competitività o spingendo a ritoccare i prezzi per i consumatori. Il pericolo è un effetto domino: crescita rallentata, consumi in calo, inflazione al rialzo e domanda interna in ulteriore contrazione. Le famiglie, già colpite dal calo del potere d’acquisto, potrebbero ridurre ulteriormente la spesa.
Inflazione, banche centrali e il dilemma dei tassi
Un aumento strutturale del 10-15% dei prezzi energetici, segnala ancora Unimpresa, potrebbe aggiungere fino a due punti percentuali all’inflazione nelle economie avanzate. L’effetto è doppio: da un lato riduce i margini e spinge le imprese a tagliare costi o investimenti, dall’altro alimenta tensioni sui prezzi al consumo. Per le banche centrali si aprirebbe quindi un dilemma: mantenere i tassi elevati per contenere l’inflazione, rischiando di soffocare la crescita, oppure alleggerire la stretta monetaria rischiando un nuovo ciclo di aumento dei prezzi. La Bce e la Fed si troverebbero a bilanciare obiettivi opposti, con margini di manovra sempre più ridotti. In questo contesto la transizione energetica potrebbe accelerare, ma i suoi benefici sarebbero visibili solo nel medio-lungo termine.
I possibili argini alle conseguenze economiche dell’escalation
Nonostante la gravità del contesto, l’Italia dispone di alcuni strumenti per mitigare gli effetti. Negli ultimi anni ha aumentato le importazioni di gnl da Stati Uniti e Qatar e potenziato il gasdotto Tap. Le riserve di gas risultano oggi piene al 90%, offrendo un cuscinetto temporaneo contro eventuali shock. Ma le contromisure di emergenza, come tetti ai prezzi o sgravi sulle bollette, avrebbero un impatto sul bilancio pubblico già sotto pressione. Per Unimpresa, misure come incentivi per flotte a basso impatto e aiuti mirati ai settori energivori possono aiutare, ma non eliminano il rischio di stagnazione economica. L’instabilità geopolitica, combinata con una crescita già debole, rende vulnerabile l’economia globale nei prossimi mesi.