Cosa resta di un romanzo dopo aver girato l’ultima pagina? A volte una storia, a volte una voce. Nel caso di Roberta Recchia, resta una domanda. Una di quelle che non si fanno ad alta voce, che mordono nel silenzio: si può perdonare l’imperdonabile?
Nel nuovo episodio del vodcast Il piacere della Lettura , la scrittrice si è raccontata con quella delicatezza che ormai la contraddistingue, forte del successo inatteso e clamoroso del suo esordio: Tutta la vita che resta (Rizzoli) - 150.000 copie vendute, tradotto in 17 Paesi, una pioggia di premi. Un esordio che, senza forzature, possiamo definire l’esordio del 2024. “È stato un anno travolgente”, confessa, con la voce ancora incredula. E poi aggiunge: “Non cambierò mai il contatto con i lettori. È la cosa che porterò con me per sempre”.
Ora, Roberta Recchia torna con Io che ti ho voluto così bene (Rizzoli), un romanzo che affonda nel terreno scivoloso del dolore e del perdono. Racconta il percorso di Luca, un ragazzino di nemmeno quattordici anni che viene scaraventato fuori dalla propria infanzia per colpe non sue. “Vittima collaterale” di un evento tragico, Luca si ritrova esiliato in una nuova città, lontano dalla sua casa al mare, e costretto a reinventarsi.
È un romanzo di formazione, certo, ma anche un’indagine emotiva su come si sopravvive quando le fondamenta della propria famiglia crollano, e si resta soli con i cocci. "Luca non è solo un ragazzo fragile, è un ragazzo che osserva, che trattiene”, spiega Recchia. “E che, piano piano, impara a rifiorire nonostante tutto”.
Centrale nella sua ricostruzione è lo zio Umberto, figura luminosa e incrollabile, capace di avere fiducia nella giustizia anche quando nessuno ci crede più. Eppure, non basta essere giusti. Ad un certo punto, serve anche qualcuno disposto ad accogliere chi ha sbagliato. Quel qualcuno è padre Lodoli, prete e amico, che non abbandona la pecorella smarrita. È forse lui a incarnare l’idea più radicale del romanzo: il perdono non è un premio, ma una scelta di amore.

Quando Recchia racconta il dialogo tra Umberto e padre Lodoli, lo fa con un rispetto raro. "Sono due visioni che sembrano inconciliabili. Ma in fondo non lo sono. Anzi, si completano”. E in quella convergenza, forse, c’è già una risposta alla domanda iniziale.
Il romanzo, ambientato negli anni Ottanta, mette anche in luce il contrasto tra l’adolescenza di ieri e quella di oggi. «” ragazzi di oggi sono più soli, più esposti. Il filtro dei social ha reso tutto più immediato, ma anche più crudele”, osserva. Eppure, la fragilità dell’adolescenza - quella che fa arrossire per un saluto, quella che illumina l’estate grazie al sorriso di chi si ama - rimane la stessa attraverso le epoche.
"Davanti al bene che gli aveva voluto, tutto quell’odio non poteva niente”. Questa frase, che arriva quasi come una carezza finale, ma che rimbomba prepotentemente in tutto il romanzo, lascia aperta la questione. È davvero possibile perdonare chi ci ha feriti nel profondo? Io che ti ho voluto così bene non dà risposte, ma apre feritoie. E chiede al lettore: tu, che scelta avresti fatto?
Forse è proprio questa la forza della scrittura di Roberta Recchia: non giudica, non spiega. Ascolta. E ci ricorda che, anche quando la vita spezza, si può sempre scegliere di ricominciare da una parola dolce, da un gesto gentile, da una possibilità.
Forse si può ricominciare dal perdono, per se stessi e per gli altri.